E se indossare oppure no il reggiseno non fosse più una libera scelta di ogni donna?

Nel 2018 esistono delle realtà avorative che impongono una loro visione, discriminante, alle donne in cerca di lavoro. In uno stato estero, però, c’è stato chi ha avuto il coraggio di ribellarsi. Sarà il Tribunale a dirci da che parte è la ragione

Niente reggiseno, niente lavoro!

Questo si è sentita dire Christina Schell, una ragazza di 25 anni che lavorava come cameriera nel Golf Club di Osoyoo, un piccolo comune della Columbia Britannica, la provincia più occidentale del Canada.

La Schell ha presentato una denuncia per violazione dei Diritti Umani contro il suo ex datore di lavoro.

La ragazza, che era stata assunta come cameriera nel maggio scorso, ha dichiarato che al Golf Club era di prassi far sottoscrivere alle dipendenti un “Dress Code” da rispettare sul luogo di lavoro. Una specifica clausola riguardava l’abbligliamento intimo: “Le donne devono indossare una canottiera o un reggiseno sotto la maglietta dell’uniforme”.

Lei si era rifiutata di sottoscriverlo adducendo che, per motivi di salute, già da anni non indossava il reggiseno. La sua scelta sull’abbligliamento intimo aveva, però, provocato le lamentele di alcuni clienti che, per questo, si erano sentiti personalmente offesi, tanto da far arrivare il malcontento in Direzione.

Doug Robb, Direttore Generale del Golf Club, l’aveva redarguita più volte ed alla fine si era visto costretto a licenziarla perché, a suo dire, non aveva rispettato il regolamento: “so benissimo cosa accade al Club quando si beve alcol”, ha affermato, sostenendo che lo scopo era di proteggere le donne e non discriminarle.

Dal canto suo, la Schell ha aggiunto di essere stata licenziata per essersi rifiutata di conformarsi a quello che considerava un codice di abbigliamento sessista, ritenendosi vittima di una “discriminazione di genere” in quanto, una simile politica, non ha niente a che fare con i requisiti professionali richiesti per il lavoro da svolgere:  “non penso che un altro essere umano debba essere messo nelle condizioni di decidere la biancheria intima da farti indossare”, ha affermato la giovane cameriera che ha presentato il ricorso al Tribunale dei Diritti Umani della British Columbia.

Proprio in Canada, un paese giovane, aperto e progressista dove già dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’opinione pubblica e la politica hanno prestato un’attenzione sempre crescente al tema dei Diritti Umani, l’abbigliamento intimo diventa tema di contenzioso tanto da arrivare nelle aule giudiziarie.

Nel 1977, con l’approvazione della Legge Canadese sui Diritti Umani (CHRA), viene istituita la Commissione Canadese per i Diritti Umani (CHRC) con competenza in materia di indagini e risoluzione di controversie in ambito discriminatorio.  Oggi, la legislazione canadese contro le discriminazioni è tra le più avanzate al mondo: il Governo Federale, le Province ed i Territori in tema di diritti inalienabili hanno approvato diverse disposizioni che vietano atti discriminatori o molestie per motivi di orientamento sessuale, razza, età, disabilità, credo politico o religioso, sia nel settore pubblico che in quello privato. In materia di occupazione, ad esempio, garantisce la tutela di diverse categorie considerate a rischio di discriminazione, tra cui le donne, che godono di una protezione maggiore rispetto a quella garantita da molti altri paesi occidentali. L’obiettivo di garantire pari opportunità e maggiore tutela alle vittime delle pratiche discriminatorie è stato perseguito tenacemente anche dal Primo Ministro Justine Trudeau che, nell’intento di ampliare questa tutela, è riuscito a fare approvare un provvedimento, entrato in vigore nel giugno 2017, di modifica della Legge e del Codice Penale, che include tra i motivi di discriminazione anche l’identità o espressione di genere”.

E proprio di “discriminazione di genere” parla la Schell, facendo ricorso al Tribunale per i Diritti Umani: la tesi sostenuta è che i codici di abbigliamento specifici per genere potrebbero essere considerati discriminatori perchè contrastanti con la Legge sui Diritti Umani. La giovane ha dichiarato che lo scopo del ricorso non è di riavere il suo posto di lavoro al Club ma di “sensibilizzare” maggiormente l’opinione pubblica: “queste cose accadono e queste cose non sono giuste”.

Sarà ora il tribunale a dover decidere se le motivazioni addotte dalle parti siano di tutela nei confronti delle donne, come affermato dal Direttore Generale del Golf Club, o lesive dei Diritti Umani, come sostenuto da Christina Schell.

 

Editor Dott.ssa Petra Dal Corso

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